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IL MAESTRO

Luigi Di Benedetto insegnò per quarant' anni, dal 1920 al 1960 in istituti statali: la sua prima cattedra l'ebbe a Lanciano nel 1920; fu poi dal 1921 al 1923 a Chieti; dal 1924 al 1925 fu a Salerno; dal 1925 al 1937 insegnò a Napoli presso l'Istituto Commerciale "Diaz" e successivamente presso il Liceo Scientifico della Scuola Militare "Nunziatella" di Napoli. Sono proprio gli alunni ch'egli ebbe in queste due ultime istituzioni scolastiche che più lo ricordano con affetto e stima e me ne hanno dato atto in più occasioni.
Ma preferisco che a parlare di Luigi Di Benedetto Maestro siano Salvatore Mampieri e Feliciano Ferri, che lo conobbero in tale veste nel lontano 1942.

Ecco quanto ha detto in merito il primo in occasione della Commemorazione svoltasi il 17 agosto 1996 ad Introdacqa.

"Diciotto anni non compiuti e l'amore che io nutrivo per il sapere suscitarono in me lo stato d'animo del bambino che ama molto il mare, ma quando si tenta di immergerlo, egli si ritrae spaurito.

Ma un pomeriggio di settembre 1943, superando il timore reverenziale che mi affliggeva, mi trovai al cospetto di Luigi di Benedetto.

Dense e nere nubi di rovine e di lutti si addensarono sui celi d'Italia in quel tragico settembre. Le truppe germaniche, ritirandosi dal sud della penisola, venivano attestandosi sulle rive del Sangro.

Napoli era così irraggiungibile per il professore e la sua famiglia.

" Fino a quando mi sarà impedito dalla guerra di rientrare a Napoli e di tornare ai miei studi e alle mie ricerche, tu potrai venire qui di pomeriggio, se ciò ti farà piacere, e converseremo e ci intratterremo sulla lingua e letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri". Questo mi disse pressappoco con voce dolce e suadente che mi mise subito a mio agio.

Ebbe inizio così un simposio letterario a due, di cinque ore al giorno, dalle due pomeridiane fino alle sette di sera, ora del coprifuoco.

A rifletterci oggi, anche alla luce degli studi pedagogici da me approfonditi ulteriormente e dell'esperienza quarantennale acquisita nella Scuola dapprima come docente poi come dirigente, Luigi Di Benedetto era un vero maestro, profondo conoscitore dell'animo dei giovani, attento e rispettoso della loro sensibilità, perché mai in quelle lunghe conversazioni giornaliere fece sentire o minimamente avvertire il peso del suo sapere. Le parole scaturivano dalle sue labbra in modo piano e lineare, come polle di acqua sorgiva, si diramavano, articolandosi nelle più complesse forme sintattiche, in maniera limpida e sempre corretta. Ed allorché egli ultimava l'esposizione di un argomento o di una tesi, chiedeva sempre la mia opinione o il mio pensiero. Io, senza emozione o soggezione in virtù della sua modestia, esponevo serenamente le mie tesi in proposito. Ed anche quando queste erano in opposizione alle sue, egli non le respingeva, ma amabilmente le faceva sue e me le riproponeva in modo problematico.

Sul "veltro" dantesco, ricordo, sorse tra me e lui una discussione sull'interpretazione di questa oscura figura della Divina Commedia. Io, con l'incoscienza dei giovani, che poi è il lievito della storia, sostenevo la tesi che il poeta fiorentino non aveva lasciato niente di oscuro nella sua opera , e ciò che appariva misterioso nella prima cantica veniva rivelato nelle altre due, cioè nel Purgatorio o nel Paradiso. Questa controversia letteraria andò avanti per oltre un mese.

Egli non la respinse mai con ironia o con sufficienza, anzi mi invitò e mi esortò a ricercare nella Divina Commedia i versi, le terzine o i personaggi che confortassero la mia tesi.

Quando stavo per dichiararmi sconfitto, mi disse con bonomia che uno studioso ricercatore non deve mai scartare le ipotesi, che, però, per tradurle in certezze o verità, devono essere sostenute da documentazioni o da prove irrefutabili.

Degno di nota è quando sottoposi alla sua attenzione il mio primo tema.

"Leggi" mi disse.

Io avevo lavorato su quell'argomento per alcuni giorni, donandogli anche qualche ora di sonno. Volevo fare bella figura.

E lessi, avendo cura della pronuncia ed evitando di omettere le finali, come è tipico del linguaggio abruzzese.

Egli non mi interruppe mai ed io mi sentivo già fiero di me quando alla fine disse: "E' un buon dialetto italianizzato. Da ora lavoreremo per perfezionare l'espressione linguistica e ti aiuterò a trovare il tuo stile e a liberarti dalle forme scolastiche".

Ed io, o maestro insigne e mai dimenticato, non credo di aver tradito il tuo alto insegnamento se nella prova scritta del concorso magistrale all'Aquila, nel 1948, indussi la commissione esaminatrice a scrivere tra l'altro, che il tema era svolto "con grazia ed eleganza di stile".

Eleganza e stile che appartengono di diritto al mio maestro.

Ma la tensione spirituale del professore per l'arte non si esauriva nell'intenso e scrupoloso lavoro di ricerca, di critica e d'interpretazione delle opere della letteratura italiana delle origini.

Egli nutrì una grande passione per la vera musica, di cui divenne ben presto intenditore incomparabile; passione che gli era sorta e si rinvigorì in lui giovanissimo seguendo con interesse vivissimo le belle esibizioni del concerto bandistico del suo paese natio, ai suoi tempi famoso.

E di tutta la musica sinfonica, quello che faceva vibrare di più le corde della sua sensibilità musicale era il terzo movimento della nona beethoveniana.

E a proposito di Beethoven, mi sovviene un pomeriggio di marzo del 1944.

Sedevamo nel salotto di casa sua e conversavamo, come al solito, serenamente.

All'improvviso la porta si spalancò violentemente e due soldati tedeschi apparvero sull'uscio con il noto elmetto sul capo e le machine-pistole spianate contro di lui.

"Arbeit!" escamò con tono perentorio uno dei due.

Noi ci alzammo, forse sbiancando.

Seguì un attimo di silenzio.

Poi lo stesso, indicando con la mano il professore (dimostrava di esserlo veramente per la spiritualità che traspariva dal suo viso affiliato e dai suoi occhi vivi) aggiunse interrogativamente "Professor?".

Ancora un attimo di silenzio.

"Gut" aggiunse infine facendo cenno di tornare a sedere.
Si girarono, batterono i tacchi ferrati e se ne andarono.
Ci guardammo stupiti. Poi il professore che più volte aveva ripetuto di non comprendere perché un popolo che aveva dato i natali a personalità come Beethoven, Goethe e via dicendo, potesse abbandonarsi a tanta crudeltà, commentò pressappoco così l'episodio "La cultura salverà il mondo".
Quel giovane con quel gesto, trasgredendo i severi ordini militari, sicuramente, se gli fosse stato possibile, per amore della cultura si sarebbe seduto in pace intorno al nostro tavolo.

Nella prima decade del giugno 1944 il cielo, non più oscurato dalle macchie di guerra, tornò a posarsi, terso, sulle alte cime dei monti della Conca di Sulmona. Il fronte di guerra si spostava a nord e la via per Napoli tornava ad essere libera.

Così finiva il nostro convivio durato nove mesi per cinque ore al giorno in un rapporto diretto tra maestro e discepolo, rapporto che costituisce l'atto educativo più nobile e più proficuo.

"Messo t'ho innanzi, ormai per te ti ciba" mi disse con un sorriso dolce quando ci salutammo.

E da quel giorno, purtroppo, più non lo rividi.

Egli mi aveva avviato alla ricerca scientifica; mi aveva insegnato a chiosare a margine un testo letterario alla prima lettura per fissare le immediate interpretazioni; mi aveva guidato nella composizione di un saggio critico ed estetico; mi aveva lumeggiato approfonditamente le poetiche dominanti di ogni secolo dal Duecento all'Ottocento; mi aveva spiegato le ragioni delle fortune della produzione letteraria del Petrarca, di cui predigeva la canzone "Vergine madre che di sol vestita" e il sonetto "Movesi il vecchierel canuto e stanco" e l'oblio di Dante fino alla seconda metà del Settecento: mi aveva illustrato l'importanza avuta nel tempo dalla poesia religiosa e cavalleresca; mi aveva presentato la novellistica, dal Novellino, di cui andava alla ricerca dell'autore, al Boccaccio, al Bandello; mi aveva fatto leggere e commentare le tragedie dell'Alfieri, cui riconosceva il merito di avere incastonato nella corona della letteratura italiana la perla che mancava, la tragedia; mi parlò a lungo del pessimismo che permea la concezione di vita del Leopardi, nei "Detti Memorabili di Filippo Ottonieri" e del Manzoni nell'ultima pagina dei "Promessi Sposi", della loro analogia e della differenza perché il primo la risolveva con una mano che "una tomba ignuda indicava da lontano" e l'altro nella Fede e nel soccorso della Provvidenza; mi fece raccogliere tutte le similitudini della Divina Commedia, suddividendole in tre classi: riferite agli uomini, agli animali, alla natura fisica ed astronomica.

In nove mesi e a diciotto anni, grazie alla gratuita disponibilità di tanto Maestro, quanti corsi universitari avevo completato?"

Salvatore Mampieri      

 

 

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